di P. Crugnola – Febbraio 2004
La difesa personale é argomento di grande attualità. Discipline antiche, insieme ad altre di più recente estrazione, si contendono il primato dell’efficienza e della sicurezza, esibendo tecniche e situazioni sempre più complesse e micidiali e risolvendole con modi altrettanto complessi e talora spettacolari.
La gente risponde ammirata a queste sollecitazioni e, nel suo intimo, sogna e spera di riuscire, se non proprio ad emulare, almeno a raggiungere un livello di “autosufficienza” che consenta di muoversi con sicurezza nelle più consuete situazioni di pericolo. Pericolo che, per altro, é quotidianamente confermato: basta, infatti, sfogliare qualsiasi giornale per verificare l’entità e la preoccupante prossimità di tutto il problema.
In alcuni casi, la difesa personale può diventare anche un mestiere. Il cosiddetto “body guard” o “operatore di sicurezza”, secondo un’accezione più globale del termine, é ormai un vero e proprio lavoro e parecchie sono le scuole che formano specialisti in questo senso.
Quando penso a tutto questo mi viene in mente una scena di un film di parecchi anni fa “Alla ricerca dell’arca perduta”. In essa, l’attore Harrison Ford, nei panni dell’archeologo – avventuriero Indiana Jones, si trova ad affrontare una sorta di gigante arabo il quale, sguainata la scimitarra, si esibisce in un vero e proprio kata al fine di mostrare la propria abilità e, insieme, di intimorire il suo avversario prima di sferrare l’attacco finale. Indiana Jones l’osserva con attenzione e alla fine dell’esibizione, con aria scettica e scocciata, estrae la pistola e spara uccidendo l’arabo, chiudendo così in modo ironico e definitivo la questione.
La scena é comica, ma suggerisce una riflessione. Anche la più raffinata ed estrema arte marziale é pressoché inerme davanti al fuoco di una pistola.
In un altro film, molto più recente, “L’ultimo samurai”, possiamo trovare una scena analoga anche se inserita in un contesto ben più drammatico e niente affatto comico. Una mitragliatrice di nuova concezione, la famosa “gatling”, mette fine alla resistenza di un gruppo di valorosi e nobili samurai che tentano di opporsi ad una troppo affrettata modernizzazione e “occidentalizzazione” del loro paese.
Perché queste due citazioni?
Per evidenziare che l’efficacia delle cosiddette arti marziali, sotto il profilo prettamente tecnico, é cosa ormai risolta, chiarita e archiviata da più di un secolo. Il tentativo di resuscitare queste discipline per utilizzarle nella difesa personale oggi, in un tempo in cui la tecnologia permette di uccidere tranquillamente standosene a km di distanza, é una mera illusione. Ma allora, studiare le arti marziali é inutile? Se é per finalità esclusivamente pratiche e simili, quindi, a quelle dell’antico ju jitsu giapponese, direi proprio di sì.
Jigoro Kano, il fondatore del Judo, aveva intuito tutto questo già intorno al 1880. Egli considerava il jujitsu, così come era allora praticato, anacronistico e inadatto a rappresentare gli ideali di civiltà e, soprattutto, di modernità che la cultura giapponese stava perseguendo con sempre maggior determinazione. Il Giappone voleva diventare nazione e stato “moderno” e tutto ciò che faceva parte del suo passato medievale, come appunto il ju jitsu, costituiva un ostacolo al progresso e, in questo senso, veniva considerato negativamente. Per questi motivi Jigoro Kano cambio il ju-jitsu in ju-do.
Nel ju jitsu, nella sua pratica e nel codice etico morale che la caratterizzava, esistevano una serie di capacità, competenze e abilità che, trascendendo la mera utilità pratica (uccidere l’avversario sul campo di battaglia) potevano contribuire a migliorare l’uomo nella sua quotidiana esistenza. Sulla base di questa convinzione Jigoro Kano mise a punto un sistema educativo (non un’arte, né tantomeno uno sport) che insegnasse un corretto e migliore impiego delle proprie ed altrui energie, il tutto, praticato in un clima di rispetto, collaborazione e reciproco miglioramento. Questo é il judo.
Torniamo alla difesa personale e alle arti marziali. Praticarle ha quindi senso solo nella misura in cui siano mezzo e strumento per apprendere e acquisire quelle capacità, competenze e abilità di cui si é detto precedentemente e che fanno parte del patrimonio tecnico e culturale del judo.
Facciamo un esempio, praticando il Kime no Kata alleno la capacità di concentrare le energie, la decisione e la determinazione. Essere decisi e capaci di concentrare le proprie energie in vista di una meta sono qualità che hanno un campo d’applicazione difficile da circoscrivere per non dire che riguardano tutta la vita in generale. E così avviene per tutti gli altri kata del judo.
Ecco perché Jigoro Kano sosteneva che il judo poteva avere, al di là delle nozioni di vittoria e sconfitta, un riscontro molto vasto e nei settori più disparati dell’attività umana. E adesso la scelta: restare nelle “felice” illusione dell’imbattibilità o vivere in modo più consapevole la nostra esistenza?