Articolo tratto da “La Repubblica” del 27.05.2007
Di Renata Pisu
Che paese in fibrillazione era il Giappone verso la fine dell’Ottocento, quando per sopravvivere cominciò la sua veloce corsa alla modernizzazione. Tutto doveva essere nuovo, moderno, basta con le antiche usanze feudali, abolita la casta dei samurai ai quali un editto dell’Imperatore Meiji proibì di portare le due sacrosante spade; così i poveri ex guerrieri si videro costretti a diventare imprenditori, funzionari, impiegati, e a vestirsi con capi di abbigliamento occidentale, magari soltanto una bombetta, o un paio di pantaloni con sopra il kimono.
I bimbi nelle scuole cantavano la canzone della Palla della Civiltà, dovevano contare ogni rimbalzo nominando oggetti utili come la macchina a vapore, i lampioni a gas, le scarpe di cuoio, per mettersi bene in mente cosa era nuovo e bello, mentre l’Imperatore scriveva versi tipo «Oh, come vorrei rendere questo paese secondo a nessuno».
Ma che fare delle antiche arti marziali nelle quali eccellevano i samurai? Metterle decisamente al bando non era possibile ma il nuovo spirito dei tempi ne decretò l’inutilità in quanto era opinione comune che fossero antiquate, vecchie tecniche di combattimento indegne di un paese al passo con i tempi che si era dotato di un esercito moderno affidandosi a istruttori prussiani. E di moderne, anzi modernissime armi da fuoco. Ginnastica, corsa, baseball, tennis, queste sì che erano attività fisiche da praticare, i giapponesi dovevano diventare tutti degli sportivi, non degli anacronistici guerrieri. Così le arti marziali e prima fra tutte il jujitsu, la Tecnica della Cedevolezza che mira alla sconfitta dell’avversario basandosi sul principio che il flessibile vince sul duro e che si combatte senza armi, subì il più totale discredito: chi la esercitava ormai combatteva per soldi, si esibiva nei circhi, il samurai era diventato un saltimbanco però feroce, violento, odioso. Tuttavia la febbre della modernità coinvolse presto anche le arti marziali.
Il judo, infatti, è un prodotto della modernità, ideato agli inizi del Novecento dal Maestro Jigoro Kano, nato nel 1860. il quale intuì che il jujitsu era un patrimonio da salvare ma le sue finalità andavano riviste. Scrive Il Maestro: «Io studiavo il jujitsu perché capivo che era il mezzo più efficace per l’educazione del corpo e dello spirito e per questo ebbi l’idea di diffonderlo ovunque. Ma era necessario migliorarlo e trasformarlo perché lo stile antico non era immaginato per l’educazione fisica o morale, lo scopo era solo quello di lottare per vincere. Così ho preso le cose più interessanti dalle varie scuole di jujitsu e vi ho aggiunto delle mie personali invenzioni arrivando a fondare un nuovo metodo per la cultura fisica e mentale che ho chiamato Ju Do, la Via della Cedevolezza. In effetti io non insegno soltanto la tecnica, cioè lo jitsu, ma il Do (in cinese il Dao), cioè la Via, ed è sulla Via che voglio insistere. Ho evitato il termine jujitsu anche perché esistevano scuole che praticavano tecniche di estrema violenza e in molte palestre gli allievi anziani picchiavano i giovani».
La figura di Jigoro Kano si inserisce alla perfezione nel fervore di idee e di proposte innovatrici del Giappone a cavallo tra Ottocento e Novecento. Quando giunse a Tokyo dalla provincia per proseguire gli studi era un ragazzo gracile, costretto a subire le angherie dei compagni e per difendersi, appena entrato nel 1877 all’Università di Tokyo, cominciò a studiare il jujitsu allenandosi con tanto fervore che, si racconta, era sempre pieno di lividi al punto che i suoi insegnanti lo avevano soprannominato “unguento” per tanto che ne usava per cospargersi tutto. Conobbe dei grandi maestri che continuavano a insegnare la loro disciplina anche se ormai discreditata e, nel 1882, aprì una sua palestra che chiamò Kodokan, cioè «luogo per studiare la Via», elaborando la prima sintesi delle varie scuole di jujitsu. Il suo nuovo stile si fondava sul miglior uso dell’energia allo scopo di «migliorare se stessi e contribuire alla prosperità del mondo intero». Un’esagerazione? Per Jigoro Kano no, secondo lui il judo avrebbe potuto essere utile per risolvere i problemi dell’umanità in generale in quanto, sosteneva, l’esatta comprensione di cosa sia l’energia e del suo migliore impiego comporta il raggiungimento di una comprensione totale di ciò che ci circonda che permette di interagire e di collaborare per un miglioramento globale. E il judoka, cioè chi segue la Via del Ju, in qualunque situazione diventa un catalizzatore positivo.
Yves Klein, pittore e judoka, conosceva questa teoria del Maestro fondatore della disciplina alla quale si è dedicato? Secondo alcuni critici è come se la Via della Cedevolezza scorra nel suo percorso artistico portandolo a non voler far combattere due colori sulla stessa tela perché uno dei due sarà annientato, mentre il vero judoka non annienta l’altro, lo ingloba nella sua energia. Tuttavia, nella teoria e nella pratica di questa nuova disciplina derivante da una assai più antica — cinese alle origini — abbondano le interpretazioni e le applicazioni più varie e contrastanti. Il judo può avere davvero influenzato il monocromatismo di Klein? O la visione del mondo di Vladimir Putin, altro noto judoka? Molto difficile dirlo anche perché difficile è definire cosa sia il judo. Secondo il Maestro Bunji Koizumi «il judo ha la natura dell’acqua: l’acqua scorre per raggiungere un livello equilibrato. Non ha forma propria ma quella del recipiente che la contiene. È indomabile e penetra ovunque. È permanente ed eterna come lo spazio e il tempo. Invisibile allo stato di vapore, solidificata in ghiacciaio ha la durezza della roccia».
Il paragone è affascinante, pura poesia, comunque il judo, frutto della modernizzazione del Giappone, ha subito varie vicende, è stato usato in vari modi, ha servito sotto diverse bandiere, spesso è diventato “di parte” e questo nonostante la visione internazionalista e pacifista del suo fondatore, in accordo con quella di De Coubertin e della fiamma olimpica.
Ma torniamo agli inizi del Judo Kodokan. Il Maestro Jigoro Kano ha da poco fondato la sua scuola, tuttavia le tradizionali scuole di jujitsu, già in crisi per le mutate condizioni sociali del Giappone, si impegnano a ostacolarne la crescita e l’affidabilità impegnando quasi quotidianamente gli allievi di Kano in vere e proprie sfide pubbliche. Un giorno però, nel luglio del 1886, la Prefettura di Polizia di Tokyo, dovendo dare l’appalto a una scuola di difesa e attacco senza armi per l’addestramento delle reclute, indice una gara alla quale partecipano la nuova scuola di judo appena costituita e la scuola di jujitsu più famosa e ancora non “disonorata”, quella del Maestro Fukuda. Ebbene, vince la scuola di judo, anche se all’epoca Jigoro Kano venne accusato di aver truccato le carte, cioè di aver dato posto nella sua squadra a campioni di jujitsu soltanto nominalmente convertiti alla sua nuova scuola. Inutile entrare in polemiche datate: la vittoria della scuola di judo sancisce la vittoria del “moderno”, secondo lo spirito del tempo, anche se all’epoca non c’era punteggio per determinare il vincitore, bisognava dimostrare di essere il più forte costringendo l’avversario alla resa o in condizione di non nuocere e i limiti di tempo erano a discrezione dell’arbitro.
Comunque, poco dopo, Jigoro Kano diventa consulente del Ministero per l’Educazione (secondo alcune fonti, per un breve periodo, ministro), si impegna a diffondere il judo nella pratica della società giapponese e si dà da fare, compiendo numerosi viaggi all’estero, per l’inserimento del “suo” judo nelle Olimpiadi perché, sostiene, lo sport olimpico è un modo di praticare lo sport che va al di là del vincere o del perdere e, nella scia di De Coubertin, si tratta di «uno stato mentale, può essere applicato nelle più diverse situazioni, è caratterizzato dalla cultura dell’impegno e dell’euritmia». Entrambi si pongono come personaggi della modernità, traditi neri loro ideali dalla post-modernità in cui oggi viviamo.
Il Maestro Kano muore nel 1938, di ritorno dal Cairo dove era stato inviato come rappresentante del Governo giapponese al Dodicesimo convegno internazionale del Comitato olimpico internazionale, nel quale si decise che Tokyo sarebbe stata la prossima città ospite dei Giochi olimpici. Scoppiò invece la Seconda guerra mondiale, che per il Giappone era già cominciata con l’invasione della Cina nel 1937. E poi Pearl Harbor e infine Hiroshima, la disfatta, il paese che aveva fortemente voluto la modernità era il primo a entrare nella post- modernità. Ma Jigoro Kano non poteva averne consapevolezza e nemmeno ebbe rammarico per il fatto che, non appena in Giappone vi fu la mobilitazione per la guerra, quella che per i giapponesi e per gli americani fu, nell’ambito della Seconda guerra mondiale, principalmentela Guerra dell’Oceano Pacifico ,il Ministero nipponico per il Benessere e la Salute organizzò una sezione di arti marziali e lo judo venne insegnato come tecnica di combattimento a mani nude nelle scuole, materia obbligatoria per i maschi dalle elementari all’università. Il judo aveva smarrito il Do, la Via aveva deviato nei campi di battaglia.
Quando gli americani vittoriosi occuparono il Giappone, per decreto dello shogun Mac Arthur vennero messe al bando tutte le arti marziali, judo compreso, quel judo che aveva smarrito la Via, creatura di un idealista in bilico tra l’esigenza della modernizzazione e la conservazione di uno spirito nazionale, di un’antica saggezza del corpo e dello spirito. Durante l’occupazione americana furono distrutti filmati sulla storia del “moderno” judo e di tutte le arti marziali del Giappone feudale, diventate tutte arti di morte del nazionalismo giapponese. Soltanto nel 1950 lo judo potrà di nuovo essere praticato in Giappone ma come sport, non più come proposta educativa globale, cioè come ideologia. Presto si diffonde in tutto il mondo, nel 1956 si svolgono i primi campionati mondiali di judo, nel 1964, alle Olimpiadi di Tokyo che segnano la rinascita del Giappone e la sua adesione alla comunità internazionale, con tutti i suoi valori e disvalori, è ammesso come sport olimpico. Il judo ha vinto, ma quante traversie, quante modificazioni di senso e di scopo ha subito, incapsulato, autorizzato a promuovere l’intesa e l’armonia globale, oppure a nuocere nelle contrastanti interpretazioni che sono state date alla Via della Cedevolezza, via dolce, morbida, gentile, oppure arma letale. Proprio come l’acqua alla quale uno dei maestri di judo di richiama per spiegare l’inspiegabile.
IL LIBRO
Si intitola I fondamenti del judo. È un manuale, appena riscoperto in Francia e inedito in Italia, scritto da uno dei più grandi artisti del Novecento, Yves Klein. Nato a Nizza nel 1928, Klein diventa famoso giovanissimo e dà scandalo Inventa giornali di un giorno, realizza gigantesche tele monocrome e dipinge con corpi nudi immersi in quel colore, il “Blue Klein”, che avrebbe brevettato alla fine degli anni Cinquanta. L’amore e la pratica del judo scorrono paralleli alla sua arte, nell’insegnamento a Madrid, nel vagheggiato viaggio a cavallo in Giappone e nei due anni trascorsi a Tokyo a perfezionarsi nei kata, le fasi fondamentali Attraverso il judo, Klein scopre che il corpo è uno spazio e che il movimento, dopo infinite osservazioni e ripetizioni, diviene “gesto automatico” che è alla base dell’arte come di ogni altra attività umana. Il libro da cui sono tratte tutte le figure di queste pagine è pubblicato da Isbn Edizioni (228 pagine, 17 euro).
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