Articolo di Cesare Barioli per la rivista “Mondo Shiatsu”.
C’E’ UN’ENERGIA…
In tutti gli esseri viventi c’è un’energia che pochi conoscono. Il termine ‘energia’ è convenzionale. Il ki non risponde alle definizioni di energia. Non uso il termine ‘energia vitale’, che è inadeguato; a meno di estendere il concetto di ‘vita’ fin’oltre la morte fisica.
IN ORIENTE, MA ANCHE IN OCCIDENTE…
C’è una similitudine tra ‘prana’ indiano, ‘chi’ cinese e ‘ki’ giapponese. Ma questi termini appartengono a tradizioni che non definiscono con precisione i concetti. Di certo se mai prana, chi e ki fossero la stessa cosa, essa è stata interpretata dagli indiani in termini filosofici, dai cinesi in termini di salute ed eterna giovinezza; dai giapponesi per vincere.
Basta questo per distinguere il prana (immense riserve di energia che gli indiani percepiscono nell’universo), dal chi (qualsiasi cosa pur di praticare sesso in età avanzata), e dal ki con cui compiere imprese eroiche.
Per dissacrare gi esotismi, racconterò che in Giappone sono stato definito ‘uomo di ki’ e in Sicilia ‘uomo di panza’. Per cui parliamo di:
– prana, chi, ki… e panza?
Certo la padronanza del ki conferisce carisma, che può essere palese e evidente (come usano gli shinto), o nascosto (tradizione buddista). Nell’Onorata Società siciliana il comando e le responsabilità sono affidati a un uomo di panza.
ENERGIA DI RISERVA…
Torno all’affermazione iniziale: c’è un’energia che tutti hanno e che pochi sanno di avere. Penso che giaccia nell’essere umano come ‘riserva’, a cui attingere spontamente (se si è sani) nel pericolo.
Se si è sani… perché qualcuno, in situazione di pericolo, sviene, trema, o se la fa addosso. Queste persone hanno uno sviluppo psichico carente.
Dicono che un tempo l’essere umano corresse pericolo di vita più volte al giorno. In quei momenti attingeva a quest’energia per prodursi in exploit d’eccezione. Poi, con la civilizzazione, è tanto se nella vita ci si trova in pericolo una sola volta scampando ad un incidente stradale: l’ombra minacciosa di un camion compare minacciosa da sinistra: freno, sterzo, accelero; mi arresto tutto sudato in piena crisi adrenalinica.
Cioè al momento mi ritengo sano e attivo; solo il giorno dopo mi accorgo che per sterzare mi sono strappato un muscolo; che ho un dolore all’inguine per la frenata; che sono tutto pesto. La novità della reazione al pericolo, che tanto frequentemente si verificava nel nostro passato, è un evento quasi piacevole (sempre se di è sani), la racconto con fierezza. Provoca quasi nostalgia di un vivere più naturale, comprensivo di adrenalina in circolo. Produce magari un desiderio inconscio di avventura.
Oggi che le occasioni di pericolo sono rare è possibile dosare il ki nella vita quotidiana, gestendolo costantemente, e utilizzandolo maggiormente quando occorre, anche in condizioni di pericolo non fisico, ma solo psicologico. Mentre una massiccia dose di adrenalina nel sangue causa una reazione (post-adrenalinica) nei giorni successivi all’avvenimento; mentre una costante leggera presenza di questo ormone migliora la qualità della vita. Nasce così un nuovo tipo di essere umano, che il buddismo definisce ‘risvegliato’.
L’ESPERIENZA DI KI NEL JUDO
Nel judo che ho praticato, in palestra si impara la tecnica. Che viene applicata in quei falsi episodi di avventura detti gare. In gara non c’è un grande pericolo (qualche volta si muore, ma è un incidente raro). Tuttavia si prova una forte emozione annunciata fin da tre giorni prima (il cuore che batte all’improvviso, concentrazione assoluta, febbre nell’immediato del combattimento). Se si è sani e preparati (addestrati nello stato di ‘mu-shin’) tutto svanisce nei primi momenti dell’azione (anche la concentrazione, che viene sostituita da ‘serenità nell’armonia dell’Universo’).
Ci si accorge dopo che eravamo nel ki, quando ricordiamo di aver vinto con un’azione straordinaria. A combattimento concluso ci si trova immersi in questa particolare energia: c’è stata una proiezione violenta, ma per un momento (nella mia esperienza questo stato perdurava quattro o cinque secondi) non si sa chi dei due ha proiettato e chi è caduto, chi dei due ha vinto e chi ha perso.
Il termine che soddisfa maggiormente quando si considera questo fenomeno è: ‘esteriorizzazione’. Ricordando in seguito si ha l’impressione che il centro di coscienza fosse fuori dal corpo. Ci si mette qualche secondo a rientrare e a stabilire se chi ha vinto sono io, o lui (Kisaburo Watanabe, campione dei 3i dan di Tokyo, parlava di 15″ di assenza dal corpo; ma io non confermo questo tempo).
Questo è un fenomeno iniziale. Qualche allievo dotato e ben guidato lo sperimenta subito; altri impiegano alcune decine di occasioni, purché esse avvengano nello stato di mu-shin, e si svolgano in un periodo di tempo ristretto (diciamo in un anno).
KI NELLO SPORT
Ricordo che Babe Ruts, leggendario campione di base-ball, interrogato sul segreto dei suoi fuori-campo, spiegava: “Quando la palla viene verso di me (nota bene, a 600 km l’ora), si ferma un attimo e la colpisco appena sotto il baricentro…” Negli anni ’50 correva voce che una donna avesse sollevato un camion per soccorrere il figlio travolto. E che una vecchietta avesse posto in salvo i suoi averi da un incendio con straordinaria energia… Da sempre gli statunitensi favoriscono gli sport ad alto livello agli studenti perché mu-shin favorisce le decisioni aziendali e l’azione di ki ottiene consensi. Il Gorin-no-sho di Musashi Miyamoto è un manuale diffuso nella classe dirigente tedesca e statunitense; la riproduzione delle tecniche che illustra richiede la gestione del ki.
KI OLTRE IL JUDO
Quando si conosce il ki, lo si usa nell’allenamento quotidiano, negli speciali del randori per sviluppare l’intuizione (sen-no-sen); o nell’esecuzione del tokui-kata per coglierne il messaggio attraverso l’azione inconscia. Si scopre che questa energia, che nell’uomo moderno sembrava destinata a circostanze eccezionali (come il pericolo di vita o il parto della donna), può essere utilizzata nella quotidianità.
E addirittura durante il sonno (lo stato di mushin e poi di ki, nel sonno, richiede la guida e la sorveglianza di un esperto perché sbagliando si rischia di cadere nell’insonnia).
Non si presenta più con la violenza dell’episodio di gara, ma con una maggior coscienza e presenza agli avvenimenti della vita.
Allora avvengono cose strane. La sensazione di avere più occasioni. Qualcuno (milanese) insiste che, grazie al ki, trova più facilmente parcheggio…
E si fanno alcune esperienze. Per provare il ki bisogna essere già padroni dello stato di mu-shin (hinc et nunc, here and now, ‘tempo-presente’, ‘senza desiderio e senza paura’). E si affronta lo stato di zan-shin (la corretta attenzione) improvvisando l’azione. Qualcuno attribuisce allo stato di zan-shin la dilatazione del tempo.
Poi incontriamo dentro di noi degli ostacoli. Possono essere connaturati alla nostra natura (karma), o ereditati dall’ambiente (educazione), o dovuti a false credenze (fanatismo). Se si ha un Maestro in cui specchiarsi, non è difficile liberarsene.
Il ki ha la struttura di un sistema solare. Ma è più facile dimostrarlo che parlarne.
Ha un centro fermo e forte (in) e una periferia (yo) solcata da possibili traiettorie planetarie (il ki che ritorna) e cometoidi (il ki che va).
L’energia scorre nel sistema tendineo o parallelamente ad esso, e richiede una corretta condizione del corpo (posizione solo leggermente flessa o piegata).
Il centro del ki può spostarsi nel corpo dalla posizione preferita in hara. Qualcuno asserisce di poterlo spostare fuori dal corpo, ma di questo non ho esperienza. Forse in certe condizioni, il centro di coscienza, col centro del ki, viene ad essere dietro la nuca.
La periferia del ki, con le sue traiettorie (meridiani), arriva a una certa distanza dal corpo. Fino a un paio di metri con la capacità di azione; a una decina di metri con l’influenza psicologica. Un esperto può mostrare a richiesta l’azione del ki a qualche centimetro dal suo corpo.
A quanto dice Cathérine Despeux, la scuola Yang di T’ai-ch’I conta 25 forme di ki. Ma nel judo, Katame-no-kata ne enumera solo 4: il ki che va, quello che ritorna; il ki che schiaccia e quello che solleva. Certo ho sperimentato ‘il ki che avverte’ della scuola Yang, ma non rientra nell’uso dell’energia, bensì per avvertire la situazione.
Il ki può essere utilizzato per guarire. E’ un argomento facile per piccole situazioni traumatiche come le botte che si prendono nel judo. Si sposta il centro del ki nel punto del trauma, che resta fermo e forte, mentre il corpo si muove liberamente attorno. Se si deve combattere, la tecnica ne risulta limitata (nella posizione eretta il centro del ki è nell’addome, spostandolo bisogna adeguare la tecnica), ma è pur sempre possibile adottare una strategia di azione.
Il ki può essere trasmesso, non tanto per accrescere l’energia del ricevente, ma per curare (modificarere la situazione patologica). Che io sappia lo si può fare attraverso il soffio, l’imposizione di una mano, col grido, o col kiai-silenzioso (kia-I, non ki-ai, o ai-ki; ‘kia-I’ è cinese: prendere-energia, manifestare l’energia). Ho conosciuto scuole psicanalitiche californiane che impongono il ki terapeutico parlando.
Villa Salta, estate 2008 – Cesare Barioli